Nelle zone tribali dell’Orissa ci sono tre citta’ che in genere vengono usate come basi per esplorare villaggi e mercati: Rayagada, Jaypore e Koraput. Quest’ultima, che viene descritta come la piu’ tranquilla e incontaminata dal turismo, sembrerebbe proprio il posto che stavo cercando. In piu’ tra Araku e Koraput c’e’ un’altro bel tratto da fare con il treno passeggeri, dal quale si puo’ ammirare il bel panorama e osservare la vita dei villaggi. In questa seconda parte di viaggio la maggior parte dei passeggeri sono tribali, e il mio scompartimento si riempie velocemente di donne seminude che vestono saree di colori sgargianti e che portano grossi anelli al naso. Ci studiamo per un po’, poi loro iniziano a chiacchierare ( forse dei miei tatuaggi ) e io mi concentro sul panorama.
A Koraput trovo abbastanza per caso un hotel appena aperto gestito da tizi gentilissimi che per sole 200 rupie mi offre una stanza enorme con la tv satellitare, e quindi mi fiondo subito in centro a vedere il primo haat ( mercato ) settimanale. Non e’ molto grande ed e’ principalmente un mercato di frutta e verdura, ma ci sono molti tribali ed e’ molto interessante guardare il viavai della gente e soprattutto i coloratissimi abiti e gli ornamenti delle donne. Provo timidamente a fare qualche foto: su internet, un po’ come per l’Africa, girano varie storie a proposito, e molti dicono che in questi mercati non si puo’ far foto se non pagando. Anche queste storie si sono rivelate delle bufale. La realta’ e’ che solo nei due mercati piu’ grandi ufficialmente non si puo’ fare piu’ foto ( grazie a quell’italiano che si e’ fatto arrestare ), mentre in tutti gli altri puoi fare tutte le foto che vuoi, nessuno ti chiede nulla, basta essere discreti e non intralciare il lavoro dei venditori. In ogni caso malgrado non sia necessario ( se non per il mercato di Onkadelli e per alcuni villaggi dei Bonda ) e’ secondo me molto sensato andarci con una guida locale: si avra’ cosi’ l’opportunita’ di interagire con le persone, conoscere la loro cultura ed essere accolti amichevolmente nei villaggi ( che comunque girando da soli sarebbero quasi impossibili da trovare ). In generale questi tribali sono simpatici e socievoli, interessati alla nostra cultura esattamente come noi lo siamo per la loro, pero’ sono anche dei grandi bevitori, e quando hai a che fare con degli ubriachi devi sempre fare molta attenzione, soprattutto se sono dei semi-selvaggi abituati a risolvere le loro diatribe con coltelli, lance e archi e frecce.
A Koraput si respira una bella aria ancora incontaminata dai malefici tour organizzati e anche durante la settimana c’e’ sempre un gran viavai di tribali. In piu’ c’e’ un bel museo antropologico, un tempio di Jagannath aperto anche ai non induisti ( quello di Puri e’ off limits ) e la gente e’ molto amichevole. C’e’ anche un ufficio del turismo, tramite il quale riesco a trovare la guida che stavo cercando: e’ un tipo schietto e di sani principi, che parla inglese, oriya e qualche lingua tribale e che e’ disposto a portarmi in giro sulla sua moto, rispamiando cosi’ i soldi del taxi. Nei giorni successivi mi faro’ una “full immersion” di cultura tribale, tra coloratissimi haat e villaggi dove la gente conduce ancora una vita molto primitiva, anche se in questi ultimi anni qualche cambiamento c’e’ stato, soprattutto tra i giovani. Mi sono piaciuti molto i mercati piu’ piccoli, dove molti ti guardano sorpresi e dove trovi molta gente che e’ completamente aliena al mondo moderno e alla vita delle citta’. Questi mercati sono frequentati dai tribali che vivono nel raggio di circa venti chilometri: fino a pochi anni fa si facevano tutto il percorso a piedi, ma oggi quasi tutti i villaggi hanno un trasporto pubblico su jeep collettive ( che ritornano cariche all’inverosimile di persone, merci e animali ). Questi tribali sono quasi autosufficienti, ma ci sono due cose fondamentali che possono procurarsi solo al mercato: il sale e il kerosene per cucinare. Il mercato comunque non e’ solo un luogo per vendere o comprare dei prodotti, ma e’ anche un’occasione per incontrare degli amici, per scambiarsi i pettegolezzi dei vari villaggi, per socializzare, per giocare d’azzardo e magari anche trovare o “comprare” una moglie. Alcuni tribali hanno adottato per i matrimoni il sistema indiano con la dote ma molti altri continuano ad usare i vecchi sistemi: il piu’ diffuso e’ l’acquisto con animali o terreni, ma c’e’ anche chi paga in natura offrendo al futuro suocero uno o piu’ anni di lavoro. Inoltre in alcuni gruppi e’ ancora abbastanza in voga il matrimonio per rapimento. In ogni mercato poi c’e’ una zona dedicata alla vendita degli alcolici che in genere sono tre: il salphi, la birra di palma, una specie di aperitivo poco alcolico; il landa, la birra di riso un po’ piu’ forte e, quello di gran lunga preferito dai locali, il mahua, una specie di grappa distillata da un fiore che puo’ avere anche 60/70 gradi alcolici ( ma io l’ho assaggiato un paio di volte e non era cosi’ forte, e ai tipi che ridevano gli avrei fatto assaggiare volentieri una buona grappa friulana ben invecchiata… ). Bellissimi i “bicchieri”, ecologici al 100%: alcune donne usano una specie di frutto cavo a forma di pera, mentre altre uniscono due foglie con delle sottili striscioline di vimini. Alla fine del mercato quasi tutti, comprese le donne, si ubriacano.
La cosa piu’ interessante di questi haat sono le donne: a seconda del gruppo tribale di appartenenza hanno diversi ornamenti, collari e grosse cavigliere d’acciaio e d’alluminio ( che possono essere rimosse solo dal fabbro ) anelli al naso piu’ o meno elaborati e molti tatuaggi. Tutti i tatuaggi che ho visto sia in Andhra Pradesh che in Orissa e in Chhattisgarh avevano un “pattern” comune: molti sembrano delle impronte di gatto o dei gruppi di puntini, tra i quali possono esserci delle figure umane o di animali. Quasi tutte le donne hanno la parte superiore delle braccia tatuate. Alcune hanno tatuaggi anche sul petto, altre anche sugli avambracci e sulle mani, altre ancora sui piedi fino alle caviglie o su tutte le gambe. I tatuaggi sul viso sono meno diffusi e in genere sono solo pochi puntini. Il tatuaggio viene fatto sia per motivi estetici sia come protezione dagli spiriti maligni. Malgrado alcuni di questi tribali si siano parzialmente o completamente convertiti all’induismo o al cristianesimo la maggior parte e’ animista e venera il sole, la luna, gli spiriti della natura e quelli dei defunti.
Una cosa che mi ha colpito osservando questi mercati e’ l’utilizzo del baratto: per molti di questi tribali il denaro e’ un’invenzione relativamente recente, e soprattutto le donne piu’ anziane preferiscono fare la spesa barattando i propri prodotti. Girano con un piccolo cestino di rattan e scambiano varie cose finche’ non hanno tutto cio’ che serve per la settimana. Tra i prodotti piu’ strani c’e’ senza dubbio lo “snack” a base di formiche rosse e sale: per chi viaggia in Asia e’ abbastanza normale vedere gente che mangia insetti ma in questo caso c’e’ una differenza, queste formiche sono vive e incazzate! A quanto pare i tribali amano questa sensazione anestetizzante provocata dal morso delle formiche. Credo che se uno di noi assaggiasse questo snack andrebbe diretto all’ospedale, ma pare che questi tribali abbiano una capacita’ di sopportare il dolore molto superiore a quella di altri uomini.
Tra i due mercati piu’ grandi ho scelto quello un po’ meno turistico e che si puo’ visitare senza problemi per conto proprio. L’ altro, quello dei famosi Bonda, non mi attirava per niente, e anche la guida me l’ha sconsigliato. Questi Bonda sono diventati un po’ come i Mursi della valle dell’Omo in Etiopia: sono stati per anni trattati come animali dello zoo dai turisti organizzati e ora, rincoglioniti dai soldi e dai regali ricevuti, vedono “l’uomo bianco” come un idiota al quale spillare piu’ soldi possibile. Onestamente in questo caso il divieto di fare foto ( sempre che sia realmente fatto rispettare, ho i miei dubbi ) non e’ una cattiva idea, e molti turisti delusi se ne andranno a fare danni altrove, a Papua, o in Africa, dove i loro euro o dollaroni sono ben accetti. In ogni caso anche l’altro mercato si e’ rivelato abbastanza deludente, con gente poco amichevole e abbastanza simile agli altri ma solo piu’ grande. Quando ho visto un gruppone di asiatici tutti con mascherina e guanti bianchi ho capito perche’ questi tribali erano poco amichevoli e me ne sono andato.
I villaggi sono tutti molto belli e puliti per gli standard dell’India, le case sono di fango e i tetti sono abbastanza simili ai nostri. L’attivita’ principale e’ l’agricoltura, anche se ci sono diversi villaggi specializzati nella tessitura, nella fabbricazione di vasi di terracotta o nell’intaglio del legno. In quasi tutti c’e’ una scuola elementare: fino a pochi anni fa i tribali erano reticenti a mandare i propri figli a scuola, cosi’ il governo indiano ha avviato un progetto di alfabetizzazione di queste aree costruendo scuole in grado di garantire un’istruzione di base per tutti i bambini. Le donne, malgrado il fisico minuto, sono molto forti e lavorano dall’alba al tramonto, mentre gli uomini lavorano molto meno e passano gran parte del giorno a bere e ad oziare. Qualcuno va ancora a caccia con l’arco.
La vita di questi tribali e’ molto diversa da quella degli altri uomini: vivono alla giornata, non accumulano nulla e non hanno preoccupazioni per il passato o per il futuro. Purtroppo c’e’ sempre qualche figlio di puttana pronto a sfruttare questa gente semplice per arricchirsi senza fare nulla: mentre ero a Puri ho letto un articolo davvero triste che raccontava la storia degli “schiavi del nuovo millennio”. Nelle zone piu’ povere del sud dell’Orissa il raccolto di alcuni anni puo’ essere scarso, e cosi’ intere famiglie sono costrette ad andare a lavorare nelle fabbriche di mattoni dell’Andhra Pradesh in condizioni disumane, non molto diverse da quelle degli schiavi ai tempi dell’antico Egitto. E’ incredibile come questo paese che potrebbe essere un esempio per tutti gli altri non riesca ad abbandonare per sempre questi aspetti oscuri della propria natura. Ma forse siamo noi occidentali che non riusciamo a capire, forse la nostra cultura del bene e del male e’ davvero un’illusione e, come dicono i saggi indiani, il mondo e’ semplicemente cosi’ com’e’, ne’ brutto ne’ bello, ne’ buono ne’ cattivo.